Il grande sportivo è morto a 47 anni: fu il campione dei profughi della sua terra
Le vite di Bol: figlio della tribù, eroe del basket e voce del Sudan
La scomparsa di Manute, il «gigante buono»
Il grande sportivo è morto a 47 anni: fu il campione dei profughi della sua terra
Manute Bol in una foto del 2006 (Ap) |
WASHINGTON – Sul campo di basket era sensazionale. Non era un talento, ma dalla sommità dei suoi 2 metri e 31, uno dei due giocatori più alti nella storia della Nba, riusciva a fermare l’impossibile, battendo ogni record di stoppate. Era così magro e sottile, che uno dei suoi allenatori lo paragonò a un gigantesco grillo e Woody Allen a un fax. Ma di Manute Bol, morto l’altra sera a soli 47 anni per una rara malattia cutanea e complicazioni renali in un ospedale di Charlottesville, in Virginia, sono altri i talenti che hanno reso straordinario il suo passaggio terreno, facendone, com’è stato giustamente osservato, «un eroe e un esempio per il Sudan e il mondo». Era nel martoriato Paese africano, infatti, che Bol aveva iniziato il suo improbabile viaggio verso la fama cestistica americana. Lì era nato, nel 1962, figlio del popolo Dinka, discendente di capi tribali, passato attraverso tutti o quasi i riti d’iniziazione: volentieri uccise un leone con una lancia, malvolentieri si sottopose ai rituali sfregi sul cuoio capelluto e all’ asportazione di sei denti. La sua vita era cambiata nel 1982, quando Don Feeley, allenatore in cerca di campioni africani, lo vide a Khartoum e lo convinse a seguirlo in America.
Bol fino a quel momento aveva soltanto fatto il guardiano di mucche e non aveva mai toccato un pallone. Ma su suggerimento di Feeley, l’anno dopo i San Diego Clippers gli fecero un contratto. Fu la prima di dieci stagioni, attraverso la University of Connecticut, Rhode Island, Washington, Miami, Philadelphia, Golden State. Dopo gli Stati Uniti, fece anche un brevissimo passaggio in Italia. Ma mai dimenticò il Sudan, di cui aveva sposato in prime nozze una figlia, Atong, dopo averne convinto la famiglia con il dono di 80 mucche. Soprattutto non dimenticò il Paese devastato dalle guerre civili tra l’élite musulmana del Nord e la popolazione cristiana animista del Sud. Anzi, tutta la sua carriera e gran parte dei soldi guadagnati da cestista li spese per aiutare rifugiati e poveri sudanesi. Manute Bol era in testa nei sit-in di protesta davanti all’ambasciata sudanese di Washington, visitava i campi dei profughi, raccoglieva fondi per alleviare la sofferenza dei suoi connazionali. «Dio mi ha guidato in America dandomi un buon lavoro, ma mi ha dato anche un cuore per guardare indietro», diceva Bol, che era cristiano. Nel 1998 era tornato in Sudan, rimanendo vittima delle dispute interne al regime. Rifiutò il posto di ministro dello Sport, respingendo la pre-condizione di convertirsi all’Islam. Lo accusarono di finanziare i ribelli cristiani Dinka, la sua tribù.
Diventò esule nel suo Paese. Solo nel 2002 gli fu accordato l’espatrio, accolto nuovamente negli USA, questa volta come rifugiato per motivi religiosi. Il Sudan che si lasciò alle spalle sprofondava nuovamente verso il baratro della guerra civile e il genocidio nel Darfur. Bol giocò anche a hockey sul ghiaccio per raccogliere fondi. Nel 2006 partecipò alla marcia di tre settimane da New York a Washington per la libertà del Sudan, organizzata da Simon Deng, ex nuotatore sudanese suo amico. Divenne perfino uno dei personaggi di What is the What (tradotto in italiano da Mondadori con il titolo Erano solo ragazzi in cammino), il romanzo di Dave Eggers ispirato alla vita di Valentino Achak Deng, uno dei «Lost Boys of Sudan » che fuggirono a piedi dall’ inferno e furono tra i 3800 rifugiati che vennero accolti negli Stati Uniti. «Se ognuno nel mondo fosse come Manute Bol – ha detto Charles Barkley, suo ex compagno di squadra a Philadelphia – questo sarebbe il mondo nel quale vorrei vivere». Requiem per l’uomo dei buoni canestri.